IL GIORNO DI MAI CHE FINALMENTE ARRIVO'
PRESENTATO IL ROMANZO DI FLORIANA SANTAGADA A CASTROVILLARI
La Città di Castrovillari, l’ Accademia Pollineana, l’ I. R.S.D.D. ( Istituto di Ricerca e di Studi di Demologia e di Dialettologia),hanno presentato "Il giorno di mai. Quel giorno che con le giuste dosi di pazienza e magia invece arrivò" di Floriana Santagada, Carmignani Editrice.
Programma della serata:
Saluti: Piero Francesco Vico, pres. Consiglio Comunale di Castrovillari.
E' intervenuto Leonardo Alario, pres. I. R.S.D.D. Istituto di Ricerca e di Studi di Demologia e di Dialettologia.
Ha condotto, relazionato ed intervistato l’autrice: Filomena Bloise, pres. Accademia Pollineana
Letture a cura di Filomena Ferraro, Circolo dei Lettori #Pollino Readers, segr. Accademia Pollineana
Biografia Autrice
Floriana Margherita Santagada è nata a Castrovillari (CS) e vive a Pisa, dove studia Medicina all’Università. Appassionata di letteratura, disegno e amante delle tradizioni popolari, esordisce con questo romanzo, di cui ha curato anche le illustrazioni.
Data: Mercoledì 23 agosto 2018 ore 18,00
Sala Espositiva del Castello Aragonese di Castrovillari
L’evento è stato inserito nel programma della 33ma Estate Internazionale del Folklore e del Parco del Pollino. #tuttoilmondoinpiazzamunicipio CASTROVILLARI
Il romanzo breve di Floriana
Santagada “Il giorno di mai. Quel giorno che con le giuste dosi di pazienza e
magia invece arrivò”, Carmignani Editrice (Collana “Scrivere donna”), si
potrebbe interpretare usando lo schema narrativo della fiaba, sia pure di una
fiaba moderna che, perciò, sfida il paradigma della complessità, ben avulsa,
tuttavia, dalla struttura narrativa
tradizionale che tutti conosciamo, dall’incipit classico “C’era una volta”,
allo scontato e sempre atteso epilogo lieto “E vissero felici e contenti”.
Nell’opera dell’esordiente scrittice, in cui il lettore è costretto, invece, a
fare tuffi quasi rocamboleschi tra la fabula e l’intreccio ed il senso profondo
del narrare (per rimanere poi gioiosamente aggrappato al filo conduttore che
dipana la storia dei nostri eroi), già lo stesso titolo tradisce una palese
contraddizione: tra la negazione, in un certo senso drammatica dell’avverbio
“mai”, e l’affatto scontato sottotitolo che, al contrario, si apre al futuro prima
inimmaginabile, che poi si intravede come positivo e felice, passando
attraverso le parole ed espressioni-chiave: giuste dosi di pazienza, magia.
Queste ultime da subito legano l’elemento umano (che fa affiorare il tema
centrale della perseveranza e della costanza dell’azione dell’uomo giusto che
porta alla epifania e addirittura al miracolo) a quello sovrannaturale, magico,
imprevedibile e perciò stupefacente, che fa parte del meraviglioso mondo delle
fiabe ,appunto, e che ci trasporta in un “paganesimo” naturale di forte
sensualismo, espressività e fiducia nelle forze liberatrici della natura. Inoltre, l’autrice mette subito le “carte in
tavola”, anche se non del tutto palesemente, della fine operazione condotta dal
narratore (che poi scopriremo essere un insolito gatto ammaliatore) nascosto
negli acronimi in corsivo che si ripetono suadenti nella richiesta di ascolto e
di attenzione, come si farebbe proprio nel “circo della vita”. In questo
“cerchio magico”, animali- in questo caso lo stesso gatto, una gazza ed un
cane, ma anche gli involontari altri protagonisti- minori della fauna locale
come cinghiali, poiane, pastori maremmani che ululano come lupi; - piante e
frutti – capelvenere, ginepri, olive, piselli, meli, peri, fichi, ciliegi,
rosmarino, peperoni, origano selvatico e ginestre e quant’altro, rimpinguano l’anima, la fantasia e persino il
palato, in quell’incredibile varietà naturale di un territorio felice per
ricchezza ed abbondanza di messi, in cui
si ha la fortuna di venire al mondo e vivere la propria esistenza, magari senza
che si abbia la capacità di vedere ciò che di buono ci è capitato. Ma veniamo agli elementi più profondi di
questa narrazione: emergono almeno tre dimensioni del raccontare. Da una parte
la classica fabula che dipana le vicende di un eroe-contadino che si mette alla
prova e per amore decide non solo di coltivare se stesso, ma anche il
linguaggio che gli dà la nuova conoscenza delle cose; e questo per essere
all’altezza della comprensione profonda e del dialogo apparentemente
impossibile con l’eroina di cui si innamora e di cui ha ritrovato il prezioso
diario intimo; dall’altra parte, la presenza costante del gatto-narratore che,
di tanto in tanto, fa capolino tra le righe per rivelarci in quale ottica e
secondo quale etica occorre guardare il mondo circostante degli uomini: la
società delle apparenze, degli status, dei soprannomi, delle dicerie, dei pettegolezzi
e delle presunzioni e, in fondo, il senso vero da ricercare, vero perché celato
delle cose, il vero valore delle
persone, la “grazia della follia” (poiché di folli o presunti tali il mondo è
pieno), l’attesa che la speranza si realizzi, che l’illusione diventi certezza
dell’impossibile che si fa possibile, della trasformazione profonda che investe
e travolge uomini e cose, fino ad arrivare al vero e proprio miracolo, reso
possibile solo dall’amore. C’è una vera e propria filosofia “felina” dell’autrice
che procede diremmo con passo felpato tra le righe e ci rivela quanto l’occhio
vede, ma non vede completamente, e con linguaggio a tratti scientifico (del
resto F. Santagada è una laureanda in medicina) ci discopre i meccanismi del
cervello e del comportamento umano: per es. cosa accade alla nostra mente
durante l’insonnia, quando scariche elettriche tendono a rivelarci verità
sepolte del nostro essere e ci aprono ad inaspettate epifanie, la
verosimiglianza ma anche l’efficacia dei soprannomi che devono per forza
contenere una punta di malignità, quasi una regola del gioco per essere noi
chiamati e , dunque, riconosciuti dalla comunità, i nostri tanti luoghi ameni
in cui, come nel caso del professor Contadino, ci rifugiamo, o direi ci
“rintaniamo”, per riposare ed essere protetti dall’esterno, ma dove , in realtà,
potremmo annegare la nostra identità
profonda se un “altro da noi” non ci riporti alla vita più autentica, che altro
non è che la vita di relazione. C’è poi un forte senso identitario, che non
solo si evince dalla cura e quasi dal compiacimento con cui l’autrice nomina i
luoghi della sua terra: siano essi le montagne della Catena del Pollino
(Dolce-Dorme, Paradiso, Serra delle Ciavole, Manfriana etc. con i maestosi e
simbolici pini loricati), siano essi le fiumare di Calabria, rigagnoli o
torrenti impetuosi a seconda delle stagioni e delle piogge. Tutto è umanizzato
agli occhi della scrittrice: luoghi, piante, animali, sono in realtà i suoi
compagni di viaggio, mentre ella, quasi confondendosi con l’eroina annoiata e
delusa, tormentata dai suoi disturbi psico-somatici desquamanti, che diventano
fiamme sul derma, provenienti, in realtà, dall’incendio dell’anima - forse per
un approccio troppo spontaneo al mondo e per eccesso di sensibilità mal
compresa dagli altri- si aggira in cerca
di pace e soddisfazione per le vie del borgo antico, alla ricerca di conforto e
ristoro. E qui entriamo nella dimensione del ricordo dei luoghi sacri
dell’infanzia, rivissuti con gli occhi nostalgici, teneri e commossi dell’esule
che, partito adolescente, può far
ritorno sol di tanto in tanto alla sua terra, tentando di conoscerla sempre di
più come il se stesso ancora nascosto. Scorrono davanti agli occhi del lettore
le bellezze del borgo antico personificato “La Civita”: il mormorio sottostante
dell’antico e famoso fiume Coscile, il passaggio del ponte della Catena con gli
arcani ed enigmatici mascheroni di pietra con le loro cannule dissetanti ,della
famosa fontana , l’arsura di viandanti e pellegrini, il rione di San Vito e la
Giudecca segno della antica presenza ebraica in città, il Castello Aragonese
coi suoi tortuosi ed intriganti cunicoli sotterranei che si dice portassero a
luoghi di carità e cura dei prigionieri malcapitati, San Giuliano con le sue
catacombe, il superbo Santuario della Madonna del Castello, con la sua
misteriosa effige che ricorda le icone bizantine. Certe volte tanta è la vita
interiore che vuol prorompere che, per converso, si desidera rinsecchirsi:
sparire, e non apparire più in carne ed ossa agli occhi del mondo insulso, da
una parte serve a riscoprire a posteriori il fascino ed il senso delle piccole
comunità che “sono fatte per accogliere, non per mostrarsi”, ma dall’altra la
scoperta che “bastare a se stessi è difficile”, che tutti forse abbiamo bisogno
di percepire i segni sul corpo e sull’anima dell’eterna metamorfosi che ci
rivela parti di noi che, invano soffocate, vogliono in realtà emergere e venire
alla luce. E’ così che l’eroina del romanzo si vede trasformata in folto mazzo
di erba, fantoccio di sterpaglie ed infine spaventapasseri che finisce per
essere oggetto erotico, diremmo inizialmente feticistico, del Professor Contadino.
Potremmo citare tanti illustri autori che ci hanno rivelato il senso profondo
delle metamorfosi, dal celebre autore latino Ovidio alla psicanalista
post-junghiana Clarissa Pinkola Estes che, con la fiaba della “donna scheletro”,
ci illumina su quanta fame insoddisfatta vi sia nell’anima sognante di certe
donne, perché non di solo pane vive l’uomo, ma di sapienza, amore e virtù come
direbbe Dante Alighieri. Dunque, passando attraverso l’incontro con tanti altri
personaggi minori, tutti nel ruolo di aiutanti sulla strada dei nostri eroi- la
gazza curiosa e solidale, le tre ragazze coltivatrici delle arti e
dell’amicizia nella casa acquamarina coi suoi quattro giardini e quattro
palchetti, il signor Oreste con il dramma della sua incompiutezza, la vivaista
illuminata, il fantasma con il suo carico didattico di ricordi ed insegnamenti
(le funzioni nella fiaba studiate dal formalista russo Vladimir Propp avrebbero
tanto da insegnarci a tal proposito), infine i nostri eroi si riconosceranno. E
lo faranno attraverso la scrittura del diario. Perché l’uomo, così come la
donna, hanno bisogno non solo di pane, sentimenti ed emozioni, bensì del valore
illuminante del segno, cioè della parola. Le cose semplici sono le più
difficili da fare: non ci si può preoccupare di tutto il resto. Una volta
scoperto ciò che è essenziale per noi, questo qualcosa va fatto, costi quel che
costi. Morale della favola è che dobbiamo avere il coraggio di sfidare i nostri
serpenti interiori, passare dalle fenditure dell’anima, anche quelle più
sottili, perché solo passando dalle crepe riusciremo a riemergere alla luce,
che è sempre nuova vita che siamo chiamati a generare col nostro impegno, la
nostra costanza, la nostra determinazione. Non saremo mai pronti a vivere l’amore
se non tentiamo mille e una volta ed ancor più; non saremo mai pronti alla vita
vera se non riusciremo a piangere le nostre lacrime più belle, se non daremo
polpa alle ossa che attendono di essere rimpolpate, se non saliremo sul dondolo
della vita, nel nostro giardino-segreto, a cullare i nostri sogni che
magicamente si avverano. Se lo vogliamo, se lo vogliamo con tutte le nostre
forze, se lo vogliamo davvero.
Castrovillari 23 Agosto 2018
Filomena Minella Bloise
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